È risaputo che il lavoro del “marittimo” sia faticoso, insicuro e rischioso ed è per questa ragione che un’adeguata organizzazione del lavoro, l’utilizzo delle buone pratiche conosciute nel settore, nonché una continua attività di informazione, formazione ed aggiornamento assumono un’importanza rilevante. I rischi cui sono soggetti i lavoratori marittimi dipendono molto dalle attività svolte dal personale di bordo, dalla tipologia di nave e di navigazione, dai cicli lavorativi e dalla tipologia di merce trasportata. La normativa nazionale di riferimento è il D.Lgs. n. 271/1999 (Adeguamento della normativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori marittimi a bordo delle navi mercantili e da pesca nazionali) mentre a livello internazionale è la Convenzione sul Lavoro Marittimo (MLC 2006).
Dal confronto tra le due normative emerge che una buona parte delle indicazioni internazionali trovassero già attuazione nel nostro sistema normativo, anche se il coordinamento tra quanto indicato nel D.Lgs. n. 271/1999 ed il nuovo D.Lgs. n. 81/2008 (Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) renderebbe la normativa nazionale molto vicina a quella internazionale.
Indipendentemente dai rischi specifici, connessi alle numerose attività lavorative svolte a bordo, vi sono però altri rischi trasversali, cui sono esposti non solo i lavoratori marittimi ma anche i passeggeri, quali ad esempio: collisione, naufragio ed incendio. Tali rischi vengono trattati dalla disciplina della sicurezza della navigazione, ovvero la Convenzione Internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS 74). La presenza di questi rischi trasversali è l’elemento intrinseco dei ruoli del personale marittimo, dell’organizzazione del lavoro a bordo, della definizione di percorsi di formazione ed addestramento, oltre che dell’organizzazione di un sistema articolato di gestione delle emergenze e di un complesso sistema di controlli pubblici (sia da parte degli Stati di bandiera che da parte degli Stati esteri in cui le navi fanno scalo), esercitati ai fini della sicurezza della navigazione.
Un altro fattore di rischio, caratteristico del lavoratore marittimo, è il cosiddetto “fattore di fatica”, il quale è legato alla particolare organizzazione del lavoro di bordo cioè ai turni, alle guardie, al lavoro notturno, alle scarse possibilità di vero recupero psicofisico, alla rigida organizzazione gerarchica, al sovraccarico di responsabilità in termini di sicurezza della nave e infine, alla natura intrinseca del lavoro marittimo (lunghi periodi di lontananza da casa, vita collettiva coatta, ricambio continuo dei colleghi, condizioni ambientali avverse, zone di traffico rischiose). Nelle navi da crociera si aggiungono poi anche le difficoltà di socializzazione, comunicazione e di rapporti interpersonali, dovute alla presenza di svariate comunità di nazionalità diversa (sulla “Costa Concordia”, ad esempio, ne convivevano 38). L’impatto sfavorevole che tali ritmi esercitano sul benessere del lavoratore marittimo si manifesta principalmente in tre aspetti relativi al danno atteso:
- interferenze con l’assetto biologico (ciclo sonno-veglia);
- efficienza lavorativa;
- stato di salute (sistema gastrointestinale, cardiovascolare).
Vi sono poi altri fattori potenziali di rischio per l’insorgere di malattie professionali, quali ad esempio:
- le vibrazioni ed il forte rumore delle macchine, che possono provocare disturbi osteoarticolari e muscolo-scheletrici (le prime) ed ipoacusia in varia misura (il secondo);
- l’esposizione prolungata a particolari condizioni climatiche (temperatura, umidità, vento);
- gli orari di lavoro irregolari e le esigenze dell’ambiente operativo (manovre di entrata / uscita dal porto, caricazione / discarica, ispezioni da parte degli enti di controllo, ecc.), che possono comportare disturbi di carattere psicosociale, ed in particolare stress;
- il rischio correlato all’esposizione a radiazioni solari, più elevato in mare che sulla terra, a causa del riflesso della luce del sole (raggi UV;
- le specifiche attività svolte a bordo delle navi, come ad esempio la movimentazione manuale dei carichi pesanti ed i movimenti ripetitivi degli arti superiori, che possono essere causa di disturbi all’apparato muscolo-scheletrico.
La tabella che segue è tratta dalla pubblicazione “Gli infortuni dei lavoratori del mare” realizzata dal Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale dell’INAIL:
Gli infortuni accaduti nell’ambito marittimo-portuale nazionale, nel periodo 2002 – 2015, e registrati nel sistema INFOR.MO (sistema di sorveglianza nazionale degli infortuni mortali e gravi sul lavoro), sono 83, dei quali 43 sono risultati mortali ed i restanti 40 gravi. Per quanto riguarda la natura della lesione, prevalgono le fratture e gli schiacciamenti, che insieme costituiscono il 62,8%, cui si accodano gli annegamenti e le contusioni, entrambi al 9,6%. Oltre il 50% di tali infortuni è avvenuto in ambiente nave (durante l’attività di caricazione / discarica delle merci, durante la fase di navigazione o durante la fase di ormeggio / disormeggio). Al secondo posto si collocano gli eventi verificatisi nelle banchine o nei piazzali (aree operative o di viabilità / stoccaggio).
Tra le cause più ricorrenti sono state individuate le modalità operative sia dell’infortunato che di terzi (55,9%) e, a seguire, le problematiche che molto probabilmente non sono state adeguatamente affrontate nella valutazione dei rischi, un processo fondamentale che sta alla base di una corretta gestione delle criticità infortunistiche:
Gli infortuni in cui l’anzianità lavorativa superava i tre anni raggiungono il 71% dei casi, il che indica che una lunga esperienza non è sempre garanzia di esenzione dai rischi di infortunio e conferma l’importanza dell’addestramento e dell’aggiornamento continuo. Oltre la metà dei casi (60%) si è inoltre verificata durante fasi lavorative svolte in navigazione, mentre una percentuale più bassa (24%) si riscontra per le operazioni in aree / bacini portuali. Rilevanti risultano essere anche le problematiche collegate al mancato utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (giubbotto di salvataggio, cinture anti-caduta, ecc.), che rimandano ad un problema di vigilanza interna oppure al loro uso errato per carenza di informazione, formazione ed addestramento.
La conclusione che scaturisce dall’analisi di questi dati è facilmente intuibile: un’adeguata valutazione dei rischi, accompagnata da una continua attività di informazione, formazione ed addestramento sono la sola formula per ridurre il rischio di infortunio.